Luce e Suono

La Luce e Il Suono

LA LUCE E LA SUA PROPAGAZIONE

Riuscire a definire la natura della luce è stato un problema indubbiamente molto difficile per gli scienziati che, per secoli e secoli, se lo erano posto come obiettivo, tanto più che delle proprietà e del comportamento della luce essi sapevano da secoli quasi ... tutto.
Anche noi perciò partiremo dall’osservazione delle proprietà e del comportamento di questa «entità fisica» che ci consente di vedere il mondo che ci sta intorno.

La luce è essenziale non solo per vedere, ma anche per vivere. Sappiamo infatti che, tenuta al buio, una pianta verde deperisce e muore perché, in assenza di luce, non può svolgere la fotosintesi. Senza la luce del Sole non sarebbe quindi possibile alcuna forma di vita sulla Terra dato che l’esistenza di tutti gli altri esseri viventi dipende da quella delle piante verdi.

Come il calore, la luce non ha peso, non è qualcosa di materiale: diciamo che la luce è una forma di energia che chiamiamo energia luminosa.

La luce si propaga in linea retta (per definizione)

La velocità con cui la luce si propaga è incredibilmente elevata. Se fossimo in grado di vedere una lampadina che si accende a New York, la vedremmo circa tre centesimi di secondo dopo che è stata accesa: è stato, infatti, calcolato che la velocità della luce è di circa 300 000 km/s. La luce del Sole che dista dalla Terra circa 150 milioni di km, ci giunge dopo solo otto minuti.

Le stelle come il Sole, ma anche la lampada di un proiettore, o una comune lampada di casa o un fiammifero, una candela, sono dunque delle sorgenti di luce o, come si dice, dei corpi luminosi.
Il Sole illumina la Luna, la Terra e gli altri pianeti; la lampada illumina il tavolo da pranzo o la scrivania dove studiamo: la Luna, la Terra, i pianeti, il tavolo ... sono quindi dei corpi non luminosi ma illuminati.

Alcuni corpi si lasciano attraversare dalla luce: sono cioè trasparenti, come il vetro, certe materie plastiche, il cristallo, l’acqua stessa, purché pulita e non troppo profonda; altri, come il vetro smerigliato, la stoffa, la carta, non permettono di distinguere con precisione attraverso di essi gli oggetti, pur lasciando passare la luce: si tratta allora di corpi traslucidi. Molti altri corpi, infine, non fanno assolutamente passare la radiazione luminosa: un pezzo di legno o di metallo, un sasso, un blocco di carbone sono corpi opachi.

La trasparenza e l’opacità sono proprietà relative. Il vetro è trasparente, ad esempio, se ha uno spessore di pochi millimetri, ma sarebbe opaco se ne avesse uno di qualche metro.

E così l’acqua in un bicchiere è certamente trasparente, ma ad una certa profondità l’acqua del mare non è più trasparente, anche se la sua superficie è illuminata.

Può invece accadere che un corpo opaco, come l’oro, quando sia ridotto in lamine assai sottili, diventi trasparente, lasciando passare una luce verdognola.

RIFRAZIONE E RIFLESSIONE

Ma come passa la radiazione luminosa attraverso un corpo trasparente?

Proviamo a mettere un cucchiaino in un bicchiere contenente dell’acqua facendo attenzione che sia inclinato rispetto alla perpendicolare.
Se guardiamo nel bicchiere, il manico del cucchiaino ci sembrerà spezzato proprio in corrispondenza della superficie di separazione aria-acqua, perché l’immagine che noi vediamo della parte immersa forma con la perpendicolare, passante per il punto in cui il cucchiaino entra nell’acqua, un angolo maggiore.

Questo naturalmente è soltanto un effetto ottico, di cui possiamo renderci conto tirando fuori dall’acqua la posata, ma ci dà utili informazioni su come si propaga la luce fra due mezzi diversi e trasparenti: a questo effetto è stato dato il nome di rifrazione.

Un fenomeno analogo a quello che abbiamo appena osservato avviene quando la radiazione luminosa passa da un mezzo poco denso, l’aria, ad uno più denso, l’acqua: la sua direzione di propagazione cambia in maniera brusca.

Vengono chiamati angolo di incidenza e angolo di rifrazione rispettivamente gli angoli formati dalla perpendicolare alla superficie di separazione (chiamata normale) e dai raggi incidente e rifratto. Le leggi della rifrazione della luce sono le seguenti:

Vediamo ora come si comporta la luce sulla superficie dei corpi non trasparenti. Forniamoci di uno specchietto e utilizziamo una torcia elettrica capace di emettere un fascio sottile di luce.
Chiuse le finestre e spenta la luce, facciamo arrivare il fascio luminoso sulla superficie dello specchietto che avremo posto su un tavolo.
Se nella stanza c’è abbastanza pulviscolo atmosferico, possiamo seguire il percorso del raggio: questo, una volta che ha battuto sullo specchio, viene «rimbalzato» nella direzione opposta a quella di provenienza.

Si ha cioè il fenomeno della riflessione della luce: la luce incidente viene riflessa, cioè inviata in un’altra direzione. Le leggi della riflessione sono le seguenti:

1. l’angolo di incidenza è uguale all’angolo di riflessione;

2. il raggio incidente, il raggio riflesso e la normale nel punto d’incidenza stanno nello stesso piano detto piano di incidenza.

Non tutte le sostanze non trasparenti sono capaci di dare la riflessione.

Se ripetiamo l’esperienza precedente usando, al posto dello specchio, un pezzo di cartone, non troveremo un fascio di luce riflessa, ma una luminosità diffusa: si ha cioè una diffusione della luce in tutte le direzioni, in quanto si formano numerosissimi fasci riflessi ma con angoli di riflessione tutti diversi.

LA LUCE E LE IMMAGINI

Ora che abbiamo visto come si propaga la luce nello spazio e come viene influenzata dalla presenza di ostacoli lungo il suo percorso, è necessario capire come si formano le immagini che noi vediamo.

Quello che abbiamo descritto fino a questo momento è il comportamento di uno specchio piano, cioè con una superficie riflettente perfettamente piatta.

Esistono però anche specchi che formano immagini più piccole o più grandi dell’oggetto.
Per esempio, gli specchi da trucco o da barba hanno spesso forma tale da fornire un’immagine ingrandita di ciò che si vede in essi; altri specchi deformano le immagini: così ad esempio quelli dei luna park. In tutti questi casi ci troviamo di fronte ai cosiddetti specchi sferici.

Negli specchi sferici, la superficie riflettente è una piccola parte, chiamata calotta, di una sfera. Se la superficie speculare è rivolta verso il centro della sfera, lo specchio è detto concavo, se è rivolta verso la parte opposta, è detto convesso. Cerchiamo di capire come funziona uno specchio sferico di tipo concavo sul quale arrivi un fascio di luce che possiamo, per semplicità, considerare come una serie di radiazioni singole e parallele fra di loro.

Un raggio arriva sulla superficie concava in un punto, formando un certo angolo con la perpendicolare in quel punto. Però questa volta la perpendicolare va tracciata rispetto alla tangente in quel punto.

I vari raggi convergono tutti in un unico punto posto fra la sorgente luminosa e lo specchio: questo viene detto fuoco reale dello specchio.
La distanza fra il vertice della calotta sferica dello specchio e il fuoco è la distanza focale. In uno specchio convesso, invece, i raggi dopo la riflessione divergono, esattamente come se la sorgente fosse situata dietro Io specchio, in un punto che viene detto fuoco virtuale, in quanto in esso convergono i prolungamenti immaginari dei raggi riflessi.

Il fenomeno della riflessione spiega dunque la formazione delle immagini quando si usa uno specchio, che è un corpo non trasparente.

Ma cosa succede dell’immagine quando si usano sostanze trasparenti, nelle quali, come sappiamo, la luce subisce la rifrazione? Vediamo quali sono i cambiamenti di direzione che un raggio subisce attraversando un blocco di vetro che abbia la forma di un parallelepipedo regolare, del quale, per semplicità, consideriamo solo una sezione longitudinale.

Il raggio, passando dall’aria al vetro, si avvicina alla perpendicolare, ma uscendo dal vetro nell’aria se ne allontana.

Si è avuta, cioè, una doppia rifrazione. Su questo principio sono basate le lenti, ovvero qualsiasi mezzo trasparente che abbia almeno una superficie curva.

È per effetto della rifrazione che la luce che passa attraverso le lenti può ingrandire la dimensione degli oggetti o farli apparire più piccoli. Una lente convergente ingrandisce gli oggetti, mentre una lente divergente li fa apparire più piccoli.

LA NATURA DELLA LUCE

È stato un fisico scozzese, James Clerk Maxwell (1831-1 879), a scoprire quale legame profondo esiste fra fenomeni elettrici, magnetici e luminosi.

Nei primi decenni del XIX secolo si era arrivati alla convinzione che la luce è un fenomeno di tipo ondulatorio che si propaga nello spazio così come le vibrazioni dell’acqua si propagano sulla superficie di uno stagno; ma se per un’onda in uno stagno è chiaro che è l’acqua a vibrare, nel caso delle onde luminose cos’è che vibra?

Maxwell scoprì che questo «qualcosa» che vibra e riempie tutto l’universo è un campo elettromagnetico, cioè uno spazio in ogni punto del quale esistono sia azioni elettriche sia azioni magnetiche.

Ciò che noi chiamiamo luce è un’onda che si propaga in questo campo

Lo spazio dunque è sede di onde elettromagnetiche cioè di azioni elettriche e magnetiche variabili che create in un punto si propagano al resto dello spazio con la stessa velocità con la quale viaggia la luce, circa 300 000 chilometri al secondo.

Sulla base di questo dato Maxwell avanzò l’ipotesi che la luce non è altro che un insieme di onde elettromagnetiche.

Un raggio luminoso che si propaga nello spazio è un’onda elettromagnetica che si muove in quella stessa direzione. Ciò che vibra in un punto dello spazio in cui vi è luce è l’intensità del campo elettrico e del campo magnetico che esistono in quel punto e che variano nel tempo.

La luce è energia che si trasmette nello spazio sotto forma elettromagnetica.

Era finalmente chiarito il mistero: la luce è un’onda che si propaga in un campo elettromagnetico; il campo elettromagnetico per l’onda luminosa è come l’acqua per le onde in uno stagno.
Diversamente da quanto finora abbiamo visto per le altre forme di energia che si servono, per passare da un corpo all’altro, degli atomi e delle molecole della materia, l’energia della luce, o energia radiante, si trasmette attraverso lo spazio sotto forma di onde.

Come le onde formate da un sasso che cade in uno stagno, anche le onde della luce si possono pensare formate da un’alternanza di cavi e creste e sono caratterizzate da quattro grandezze fondamentali:

IL COLORE DELLA LUCE

Si sa che la luce visibile ha lunghezze d’onda comprese tra 400 e 750 nanometri (milionesimi di metro).

La luce del Sole è luce bianca; attraversando le goccioline d’acqua essa si scompone nei 7 colori che la formano e cioè rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto.
La serie di colori si chiama spettro luminoso. Questo fenomeno si chiama
dispersione della luce.

Se si fa giungere un raggio di luce su un prisma di vetro, esso, dopo essere entrato nel prisma, ne esce formando una striscia di colori simile a quella dell’arcobaleno e con i colori disposti sempre nell’ordine seguente: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto.

Newton concluse che i colori dello spettro erano i colori di cui la luce solare era formata. Per trovare conferma a questa ipotesi, fece in modo di ricomporre i colori, facendoli passare attraverso un secondo prisma triangolare. Il risultato fu di nuovo la luce bianca.

E dunque possibile collegare la lunghezza d’onda della luce visibile con il colore: radiazioni luminose con diversa lunghezza d’onda vengono, infatti, percepite dal nostro occhio come luci di diverso colore.

Così le radiazioni vicino a 750 nm sono rosse, mentre quelle intorno a 400 nm sono violette. Sono questi i due estremi colorati dello spettro della luce visibile. In mezzo si trovano tutti gli altri colori.

Perché allora gli oggetti ci appaiono colorati? Un vetro rosso è così perché è fatto di un materiale che, quando è attraversato da una luce bianca, trattiene tutte le lunghezze d’onda, cioè tutti i colori, escluse quelle corrispondenti al rosso.

Non è il vetro che è colorato, dunque, ma la luce che esso lascia passare. Così il cielo ci appare azzurro perché le molecole che costituiscono l’atmosfera assorbono, o meglio trattengono, tutti i colori escluso l’azzurro.
E la natura della sostanza di cui un corpo è costituito che determina quali siano le radiazioni che esso assorbe e quali quelle che diffonde.

IL SUONO E LE SUE CARATTERISTICHE

La voce di una persona, il rombo di una moto, il ronzio degli elettrodomestici, lo squillare del telefono, la musica di uno stereo: il mondo che ci circonda è un mare di suoni e di rumori in cui siamo immersi e che percepiamo attraverso l’udito.

Le caratteristiche che distinguono un suono dall’altro sono l’altezza, l’intensità e il timbro.

L’altezza di un suono dipende dalla frequenza delle vibrazioni, cioè dal numero di volte in cui tali vibrazioni si ripetono nell’unità di tempo (generalmente il secondo). Più alto è il numero delle vibrazioni al secondo della sorgente sonora, più un suono è acuto. Il nostro orecchio percepisce solo alcune frequenze: quelle comprese tra 16 e 20 000 vibrazioni al secondo. L’unità di misura della frequenza è l’hertz (Hz), che esprime appunto il numero di vibrazioni al secondo. Ad esempio, una frequenza di 20 Hz è quella di 20 vibrazioni al secondo. Le frequenze inferiori a 16 Hz sono dette infrasuoni. Le frequenze che superano i 20 000 Hz sono dette ultrasuoni.

L’intensità del suono (o volume del suono) dipende dall’ampiezza delle vibrazioni: un suono è tanto più forte quanto maggiore è l’ampiezza delle vibrazioni.

Il timbro è una caratteristica del suono che dipende dal modo in cui vibra la sorgente sonora: è per questo che le voci delle diverse persone ci giungono diverse e che una medesima nota eseguita da un violino è diversa da quella eseguita dalla tromba.

Che differenza c’è tra un suono e un rumore? Solamente il fatto che un suono è gradevole al nostro orecchio, invece un rumore ci dà fastidio: entrambi sono prodotti dalle vibrazioni di una sorgente sonora. Si parla di rumore quando la sorgente sonora emette vibrazioni con bruschi cambiamenti della frequenza.

PROPAGAZIONE DEL SUONO

Quando gettiamo un sasso in uno specchio d’acqua, vediamo formarsi sulla superficie, a partire dal punto in cui il sasso l’ha colpita, una serie di increspature concentriche che chiamiamo onde.
Se sull’acqua galleggia un pezzetto di legno questo, al passaggio delle onde, si solleva e si abbassa ma non si allontana dal posto in cui si trova; la
propagazione delle onde avviene infatti senza che le particelle d’acqua subiscano uno spostamento orizzontale ma solo verticale.
Qualcosa di simile avviene nell’aria quando è colpita da una vibrazione emessa da una sorgente sonora.

I suoni, infatti, si propagano in essa mediante una successione di compressioni ed espansioni, dette onde sonore. I suoni si propagano anche nei solidi e nei liquidi: infatti appoggiando un orologio all’estremità di un tavolo di legno e avvicinando l’orecchio all’altra estremità si può sentire il ticchettio, così immergendo l’estremità di uno stetoscopio in un lavandino pieno d’acqua si può udire un suono prodotto nell’acqua. Invece facendo trillare una sveglia posta sotto una campana di vetro da cui è stata tolta l’aria, nessun suono giunge all’esterno: il suono non si propaga attraverso il vuoto.

La velocità del suono nell’aria, alla temperatura di 00C è di circa 330 m/s, ma aumenta leggermente quando aumenta la temperatura dell’aria.
La velocità del suono nei liquidi è maggiore della velocità del suono nell’aria. Nei solidi è ancora maggiore, purché, naturalmente, siano solidi elastici.

Si tratta di una velocità elevata ma di gran lunga inferiore a quella della luce come dimostra il fatto che prima si vede il fulmine e poi si sente il tuono. La velocità del suono non è costante, ma dipende dal mezzo attraverso cui il suono si propaga.

LA RIFLESSIONE DEL SUONO

Se le onde sonore incontrano un ostacolo sul loro cammino, in parte sono assorbite e in parte sono riflesse.
L
'eco è dovuta alla riflessione di queste onde. Il fenomeno dell’eco nell’aria si ha quando la distanza tra la sorgente sonora e l’ostacolo è maggiore di circa 17 m.

Il nostro orecchio, infatti, percepisce come distinti due suoni che gli giungano separati da un intervallo di tempo di almeno 1/10 di secondo. Perché si verifichi l’eco occorre quindi che il tempo che il suono impiega per percorrere due volte (una avanti e una indietro) la distanza fra la sorgente e la parete riflettente sia almeno 1/10 di secondo. Poiché la velocità del suono nell’aria a temperatura normale è di 340 m/s, in 1/10 di secondo il suono percorre due volte uno spazio pari a 34 m.
Ecco perché la parete riflettente deve distare dalla sorgente 17 m.

Il fenomeno dell’eco sonora è sfruttato dal sonar, uno speciale apparecchio utilizzato per misurare le profondità marine e per localizzare la presenza in profondità di sottomarini, banchi di pesci ecc.

Quando le onde sonore incontrano un ostacolo sono riflesse e ritornano al ricevitore del sonar. Conoscendo la velocità di propagazione del suono nell’acqua e il tempo trascorso tra l’emissione e il ritorno al ricevitore del segnale acustico, si può calcolare con precisione la profondità a cui si trova l’ostacolo.

Anche alcuni animali, come i pipistrelli, sono dotati di particolari organi di senso, come il sonar, che emettono e ricevono ultrasuoni. I pipistrelli mentre volano, squittiscono in continuazione, ma ciò che udiamo è solamente una minima parte dei suoni che emettono: se avessimo la possibilità di udire tutto, resteremmo certamente storditi dagli stridii, dalle grida, dalle note metalliche, dai ronzii e dai ticchettii.

Come le corde vocali dell’uomo, anche l’apparato vocale del pipistrello fa vibrare l’aria provocando in tal modo dei suoni di breve durata che però sono di frequenza molto alta, fino a 75 -100 000 Hz.
Proprio grazie a questo loro sistema detto di
ecolocalizzazione (perché appunto basato sull’eco, rimandata dai corpi dell’ambiente, dei suoni da essi emessi), i pipistrelli sono in grado di evitare gli ostacoli al buio e di individuare la posizione delle loro prede.


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